La progressività della tassazione e le sue ragioni: il dovere di solidarietà verticale
La sperequazione nella distribuzione della ricchezza e la percezione che la nostra società sia decaduta verso forme intollerabili di ingiustizia sociale ed economica sono due fenomeni che vanno analizzati e affrontati in maniera incisiva ma saggia.
Il Paese ha bisogno di politiche improntate all’equità distributiva Tuttavia, vi è una domanda preliminare da soddisfare: l’equità distributiva pretende la progressività della tassazione?
La risposta la do subito, ed è sì. A chi arriva con un distacco di qualche metro sugli altri, l’equità chiede senz’altro uno “sforzo” suppletivo: di sopportare le tasse in misura più che proporzionale al crescere della sua capacità contributiva. Vediamo come.
Il principio di progressività della tassazione: cos’è e come funziona
Il principio di progressività ha radici antichissime, risalenti all’epoca di Solone nell’Atene del 600 a.C che a sua volta, a quanto pare, lo riprese dagli Egizi.
Sulla base di esso, la tassazione complessiva cresce più che proporzionalmente al crescere della ricchezza.
I presupposti valoriali che giustificano la progressività sono due. Il primo è il vincolo solidaristico, che trasforma in comunità la mera addizione dei singoli. La progressività è uno dei sistemi per rendere concreto questo vincolo e dare attuazione al dovere di contribuire alle pubbliche spese in ragione della capacità contributiva personale. Il secondo presupposto risiede nell’uguaglianza verticale. È un aspetto talvolta trascurato, che invece dà alla progressività la più profonda giustificazione sostanziale.
Progressività della tassazione: uguaglianza orizzontale Vs. uguaglianza verticale
Il principio d’uguaglianza vuole che a situazioni identiche corrispondano identici trattamenti e a situazioni difformi corrispondano trattamenti difformi, a meno che non ricorrano condizioni particolari che legittimano discipline identiche a petto di situazioni diverse o discipline diverse per casi identici.
Le deroghe, tuttavia, devono rispondere a ragionevolezza e talvolta sono imposte proprio da questa, riportando così a sostanziale uguaglianza situazioni altrimenti identiche solo formalmente.
In questa declinazione, l’uguaglianza si può definire orizzontale perché si realizza confrontando fatti identici posti tutti sullo stesso piano. A parità di reddito la tassazione deve essere uguale, sia che il reddito sia prodotto da un’impresa o abbia origine finanziaria. Il legislatore ha facoltà, tuttavia, di proteggere l’uno o l’altro imponendo tassazioni diverse per il medesimo reddito. E ciò accade proprio per la tassazione dei redditi finanziari. Per incentivare il risparmio, protetto dalla Costituzione, l’uguaglianza formale cede il passo ad una tassazione di questi più favorevole ai redditi d’impresa. L’interesse “altro”, qui, è l’incentivo al risparmio e la deroga all’uguaglianza, perciò, è ragionevole.
L’uguaglianza verticale, al contrario, si realizza avvicinando situazioni o fatti le cui diversità d’origine si collocano su una linea in ascesa. Questo tipo di uguaglianza è una delle forme più evolute di manifestazione sostanziale dell’uguaglianza stessa perché si traduce nella distribuzione del concorso alle spese pubbliche in modo da rendere il meno disomogeneo possibile il peso impositivo gravante su ognuno.
Nella redistribuzione si ritiene di dover addossare un peso quantitativamente superiore a chi è in grado di sopportarlo più agevolmente, con minore sofferenza, anziché addossare a tutti indistintamente lo stesso peso.
Progressività della tassazione: le ragioni della scienza economica
Le imposte, impoverendo chi le sopporta, provocano un sacrificio. Tanto più un contribuente è ricco, però, tanto minore è il sacrificio, perché all’aumentare del reddito diminuisce l’utilità del reddito stesso.
Facciamo un esempio pratico. Se si possiede 100 e le spese per vivere sono 100, l’utilità del reddito è massima giacché serve tutto il suo ammontare per vivere. Al contrario, se si ha 1000 e le spese rimangono 100 o magari aumentano a 200 per il tenore di vita più elevato, l’utilità del reddito per vivere diminuisce. Il reddito, per la parte eccedente le spese per sostenersi, serve sempre meno. Questa si definisce la teoria economica dell’utilità decrescente del reddito: al crescere della ricchezza l’impoverimento determinato dalle tasse incide meno.
In questo modo economia e diritto si incontrano ed è dall’incontro delle ragioni logiche proprie dell’uno e dell’altro settore che prende vita il principio dell’uguaglianza verticale.
Di conseguenza, il modello di riferimento non può che essere quello della progressività della tassazione perché solo questo garantisce gli effetti voluti dall’uguaglianza verticale. La progressività, infatti, avvicina per approssimazione le posizioni, rendendo il sacrificio più omogeneo o meno disomogeneo tra i possessori di redditi di vario livello.
Intendiamoci: in termini economici la tesi del sacrificio non è immune da critiche. Essa cristallizza un metro valoriale sufficientemente rigoroso, definibile secondo le categorie della metodologia di ricerca delle scienze sociali e della sociologia economica, ma non dotato dell’assolutezza delle dimostrazioni matematiche. Tale metro, infatti, esige un apprezzamento del legislatore, il quale non potrà che decidere discrezionalmente il grado di decrescenza delle utilità marginali dei vari livelli di reddito.
L’equità ottenuta grazie alla progressività della tassazione
Sebbene privo del rigore dell’assolutezza, il metro dell’utilità è comunque idoneo a fornire la dimostrazione dell’attendibilità del modello della progressività quanto agli effetti che per suo tramite s’intendono perseguire anche sul piano dell’equità verticale.
È per questo che alla progressività si deve continuare a riconosce la capacità di distribuire il più equamente possibile il sacrificio al variare della ricchezza.
Ai fini dell’equità non interessa quale sia lo strumento in concreto utilizzato per determinare lo sforzo che la progressività impone. L’equità vuole, però, che questo sacrificio vi sia e che sia tangibile, altrimenti l’uguaglianza verticale sarebbe beffata nella sostanza. Pretende questo sacrificio non con intento punitivo verso chi è più ricco ma in nome della solidarietà, che come si è detto è principio attuativo dell’eguaglianza sostanziale.
L’equità, infatti, vieta categoricamente forme punitive di imposizione perché irrimediabilmente contrastanti col rispetto preteso dalle diversità legittime e dalle libertà. L’equità, per essere davvero tale, pretende che lo sforzo sia contenuto entro limiti massimi, oltre i quali non si avrebbe più condivisione solidaristica degli averi, ma violazione delle libertà, dei diritti proprietari, delle diversità legittime; princìpi, questi, che operano tutti come limiti di pari grado dell’uguaglianza verticale.
Alessandro Giovannini
Professore Ordinario di Diritto Tributario, Università di Siena
Avvocato, Commercialista e Revisore dei Conti